Qui di seguito riporto alcuni appunti di un intervento fatto in diretta Facebook per un gruppo di imprenditori sul tema dell’ecologia dell’informazione. Ho aggiornato gli appunti anche con alcuni argomenti che sono venuti fuori dalle domande di chi seguiva la diretta.
Il mio mestiere è far conoscere le storie e i suoi protagonisti. Ci sono storie che si rendono pubbliche, perché interessano a tutti, e storie invece che interessano solo a poche persone. Faccio da link, praticamente.
Nel 2010 ho fondato ValleditriaNews, che ora gestiamo con altri colleghi. Raccontiamo storie, di base, sono spesso storie quotidiane, che possono sembrare piccole, ma che in realtà molto spesso hanno delle conseguenze.
ValleditriaNews forse è il primo sito di informazione tutto online di Martina Franca. Si è sviluppato grazie a Facebook. Era il 2012, più o meno, e su Facebook nascevano i primi gruppi di cittadini attivi che volevano darsi da fare per la città. MartinaNews si trovava al posto giusto al momento giusto: il giornale aveva trovato la comunità di riferimento: raccontavamo cosa succedeva grazie all’attivismo del gruppo e il gruppo si rafforzava grazie ai nostri racconti.
Questa storia mi ha insegnato una cosa la comunicazione funziona quando crea comunità. La comunità è un gruppo di persone che sono unite da un bisogno. Cum + munus. Munus significa “prestazione”, “dovere”. La comunità è il gruppo di persone che è accomunata da una serie di obblighi, bisogni, diritti e doveri. La comunicazione serve a far crescere una comunità, a guidarla, a raccontarla.
Durante la diretta c’è stata l’occasione di approfondire sul concetto di comunità, introducendo il termine “immunità”, che secondo Roberto Esposito è l’esatto opposto. Qui ho scritto una definizione [link], e qui c’è un articolo sul tema [link], scritto riflettendo su come alcuni si stanno approcciando al coronavirus.
Insisto sul concetto di racconto e di storia perché penso che di base siamo tutti protagonisti di una storia: la nostra. E guardiamo il mondo sempre con gli occhi di questo protagonista: tutto quello che accade, tutte le persone che incontriamo le inseriamo nel plot della nostra storia. Fare il giornalista, quindi, mi permette di conoscere le altre storie, di essere per un attimo co-protagonista di altre storie.
Se ci pensate bene, ognuno di noi ha una storia in mente, di cui è protagonista, e spera che abbia un lieto fine.
Ultimamente, però, le storie in cui ci imbattiamo non sono più solo quelle degli altri, ma sono spesso storie inventate ad arte per colpirci. Così come i fertilizzanti industriali hanno favorito la crescita delle erbacce, così la diffusione degli strumenti di comunicazione digitali ci hanno inondato di storie che continuamente ci fanno distogliere dalla nostra, o da quelle che dovremmo ritenere più importanti, minando anche la nostra capacità di discernimento (questi concetti sono espressi molto meglio da Luca De Biase). Io e i miei colleghi possiamo essere considerati narratori professionisti, ma ci sono tanti altri che fanno questo mestiere. Non è detto che tutte queste storie sono dannose, ma è dannoso il numero ingestibile. Non riusciamo ad uscirne fuori. I social, ad esempio, sono un esempio di fertilizzante chimico che riempie il bosco della nostra attenzione di piante dannose.
Vi racconto una cosa che forse sapete già: non esistono due bacheche di Facebook uguali, perché il flusso nella timeline è gestito da un algoritmo che vi fa vedere i post in base alla previsione della vostra interazione. Più usate Facebook, più insegnate all’algoritmo cosa vi piace e cosa non vi piace, quale tipo di post vi fa arrabbiare e quale invece no. Qui c’è un libro interessante sull’argomento.
A giugno dell’anno scorso ho scelto di fare un passo indietro da Facebook e da Instagram. Passavo almeno un’ora al giorno sui social, e alla fine ne uscivo sempre più incazzato. Non sopportavo più la stupidità di alcune persone, ero saturo. Il meccanismo di funzionamento dei social è fatto così: tende a polarizzare. O bianco o nero. E più va più diventerà una divisione radicale, perché l’algoritmo non riesce a rappresentare la complessità. Qui ho tenuto una specie di diario, per qualche giorno, poi ho smesso.
La complessità è un concetto preciso. Vi faccio un esempio. Un aereo è complicato. Per quanto possa sembrare difficile costruirlo, abbiamo a disposizione dei progetti che possono aiutarci a comprenderne il funzionamento. Una persona, invece, è complessa. Una coppia è complessa, una comunità è complessa. La complessità ci dice che sommando i fattori, il risultato va ben oltre la somma aritmetica. La complessità è fatta di tante sfumature. Ecco, dopo anni di Facebook, mi sembrava di aver perso la capacità di apprezzare e cogliere le sfumature.
Dobbiamo imparare a togliere, dobbiamo imparare a evitare i fertilizzanti chimici e concentrarci sul nostro albero. Che frutto vogliamo produrre? Coltivare la terra è faticoso, si devono seguire le stagioni. Pompare il campo ci farà avere frutti più belli ma forse più pericolosi.
Dovremmo applicare i principi dell’ecologia all’informazione, allontanare le fonti inquinanti, coltivare le cose che ci fanno bene. Questo significa che leggeremo solo quello che ci piace? Forse, ma già lo facciamo, perché è provato che ognuno di noi cerca informazioni che confermano le proprie tesi, che siano coerenti con la propria storia. Se penso che il Covid è stato realizzato in laboratorio per combattere l’Occidente, cercherò su Google articoli che lo dimostrino. Nell’ecosistema drogato sarà facilissimo trovare quello che potrà sembrare un succulento frutto e invece non è che una rappresentazione in plastica.
È il bias di conferma [link], come suggeriva Danilo, nei commenti.
Le conseguenze dell’uso della chimica nell’informazione è la generazione di tribù sempre più chiuse, armate fino ai denti, pronte a scendere in guerra. Gli algoritmi ci drogano e a nostra volta droghiamo gli algoritmi. Le comunità di riferimento invece di accettare l’esistenza di altre comunità iniziano a percepire gli altri come pericolosi avversari. Viviamo in società sempre più tribalizzate e i social sono ormai delle echo chamber, camere chiuse dove un unico messaggio viene rimbalzato all’infinito. Invece di conoscere cose nuove, il web ci radica sempre di più nella nostra ignoranza.
Inoltre, a causa del fatto che tutti intorno a noi usano fertilizzanti chimici, gli investimenti avranno rendimenti decrescenti. Se prima bastava un’inserzione da dieci euro per essere efficace, ora servono almeno 100 euro, perché tutti fanno la stessa cosa.
Tutti questi fertilizzanti hanno l’unico scorso di capitalizzare la risorsa più preziosa del bosco. La nostra attenzione.
Comunicare vuol dire, quindi, coltivare bene il proprio pezzetto di terra, rivolgersi al proprio ecosistema, faticare quotidianamente, proteggere la propria comunità dalla siccità o dalla troppa acqua, non avere fretta, allontanare i rimedi semplici, diffidare da chi dice che basta poco, ma soprattutto dare valore al tempo che gli altri ci dedicano: insegnando loro qualcosa, raccontando qualcosa di utile, ma che sia autentico e non qualche ricetta precotta.
Gli strumenti di comunicazione possono fare bene o male. Io ho conosciuto Mauro, grazie a Facebook. Dopo quasi dieci anni grazie a Facebook sono qui a parlare con voi. Non so se questo è un bene o un male, ma proviamo a ragionare così: comunicare vuol dire creare comunità, allargarla.
Durante la chiacchierata sono venute fuori le leggi fondamentali della stupidità umana di Carlo Maria Cipolla. C’è un’ottima pagina di Wikipedia [link] che spiega bene chi sono gli intelligenti, gli sprovveduti, i cattivi e gli stupidi.